Nel settore della finanza l’ingresso delle criptovalute ha segnato una significativa innovazione. Dai bitcoin agli ethereum, sono tanti i nomi con cui abbiamo iniziato a prendere dimestichezza nel corso degli ultimi anni. Si tratta di una vera e propria sfida anche dal punto di vista normativo, con le authority impegnate nel giungere a un vero e proprio schema di inquadramento.
Resta da definire, per esempio, la natura effettiva delle criptovalute, per capire se si tratti realmente di valute o, invece, di qualcosa di diverso. Inoltre, bisogna stabilire il perimetro normativo per l’applicazione delle regole e soprattutto scegliere le authority competenti, tenendo conto del regolamento europeo per gli asset digitali.
A ben vedere una definizione criptovalute precisa non può essere fornita per la semplice ragione che non esiste la categoria concettuale di riferimento. Questo è un aspetto più problematico di quel che si possa pensare, dal momento che senza definizione non ci può essere regolamentazione.
L’Agenzia delle Entrate ha provato a percorrere una sorta di scorciatoia concettuale, visto che parla delle monete virtuali come di un sistema di pagamento decentralizzato di tipo peer to peer, vale a dire fondato su un network di soggetti paritari, per cui non esistono autorità centrali di riferimento né discipline regolamentari. Quello di cui si può essere sicuri è che non si tratta di valute estere, dal momento che le criptomonete sono prive di corso legale.
Le criptomonete possono essere classificate anche come rappresentazioni di valori digitali che hanno una funzione che si esaurisce nelle piattaforme che ne stanno alla base e in sé stesse. In altre parole, le criptovalute possono essere usate unicamente all’interno di tali piattaforme.
Ma chi dovrebbe assumersi la responsabilità di fornire una definizione? L’ideale sarebbe capire quali sono le relazioni tra le monete virtuali e gli utenti che se ne servono in concreto. In altre parole un inquadramento dovrebbe cominciare dall’uso che si fa delle monete, prima ancora che dalle monete stesse. È auspicabile normare l’uso e gli utenti, così che il focus si concentri sulle conseguenze.
L’impressione è che in molti casi tali strumenti vengano presi in considerazione e analizzati unicamente sul piano del fenomeno speculativo, e quindi da una prospettiva finanziaria. Un approccio di questo tipo finisce per non prendere in esame la tecnologia sottostante: così si finisce per regolamentare il tutto come se si trattasse solo di un fenomeno finanziario, ma dimenticandosi della neutralità tecnologica.
Invece, il presupposto giusto sarebbe che si tratta di un semplice strumento tecnologico privo di valore fondato sullo scambio di valore fra le persone. È questo il punto di partenza per fare in modo che l’Italia si predisponga ad accogliere l’innovazione.
Come noto, il sistema delle criptovalute è privo di una specifica e precisa localizzazione. Questo vuol dire che se anche un Paese si dovesse rivelare inadatto ad accogliere la tecnologia, questa si potrà sviluppare senza problemi altrove. In parole più semplici: qualora un Paese dovesse porre dei paletti, ecco che la tecnologia migrerebbe altrove.
Per questo è molto importante iniziare dalla neutralità tecnologica, al di là degli strumenti che vengono impiegati. Succede che le tecnologie si spostino nei punti in cui si possono sviluppare con più certezze. Così, non c’è bisogno che siano le persone a spostarsi, ma il pericolo è quello che il Paese risulti marginalizzato sul piano tecnologico.
Mica è l’acronimo di Markets in Crypto-Assets, ed è il nome che è stato attribuito a una proposta di regolamento per i mercati delle attività in questo settore.
Esso si inserisce in una serie di provvedimenti che sono stati adottati a livello comunitario per favorire lo sfruttamento della finanza digitale e del suo potenziale dal punto di vista della concorrenza e in termini di innovazione.